Un testo lungo e decisivo del più grande, forse, degli scrittori americani contemporanei.Soggetto, cultura, verità e ricerca cioè la vita. C'è ancora possibilità per l'occidente? Sì.
Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto
incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di
saluto e dice: «Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?». I due pesci giovani nuotano un
altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: «Che cavolo è l’acqua?».
Negli Stati Uniti un discorso
per il conferimento delle lauree non può prescindere dall’impiego di storielle
d’impianto parabolico a scopo didascalico. Tra le convenzioni imposte dal
genere, questa storiella è una delle migliori e con meno fronzoli… ma non
temete: non sono qui nella veste del pesce anziano e saggio che spiega cos’è
l’acqua ai pesci più giovani. Non io sono l’anziano pesce saggio. Il succo
della storiella dei pesci è semplicemente che le realtà più ovvie, onnipresenti
e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere. Detta così
sembrerà una banalità bella e buona, ma il fatto è che nelle trincee quotidiane
dell’esistenza da adulti le banalità belle e buone possono diventare questione
di vita o di morte, ed è su questo che vorrei soffermarmi in questa splendida
mattinata tersa.
Certo, un discorso come questo presuppone che vi parli in primo
luogo del significato della vostra cultura umanistica, che cerchi di spiegarvi
perché la laurea che state per prendere ha un effettivo valore umano e non solo
un tornaconto materiale. Vediamo perciò di affrontare il cliché in assoluto più
diffuso in questo genere di discorsi, e cioè che scopo di una cultura
umanistica non è tanto rimpinzarvi di erudizione quanto «insegnarvi a pensare».
Se siete come ero io ai tempi dell’università, sentirvi dire una cosa del genere non vi sarà mai piaciuto, e anzi troverete un po’offensivo che qualcuno pretenda di insegnarvi come si pensa, visto che il solo fatto di essere entrati in un’università così prestigiosa dimostra che ne siete capaci. Ma partirò dal presupposto che il cliché degli studi umanistici non abbia niente di offensivo, perché la vera, fondamentale educazione a pensare che dovremmo ricevere in un luogo come questo non riguarda tanto la capacità di pensare, quanto semmai la facoltà di scegliere a cosa pensare. Se la vostra totale libertà di scegliere a cosa pensare sembra fin troppo ovvia per sprecare il fiato a parlarne, vi chiederei di pensare ai pesci e all’acqua mettendo da parte, solo per qualche istante, ogni scetticismo sul valore delle perfette ovvietà.
Eccovi un’altra storiella didascalica. Ci sono due tizi seduti
in un bar nel cuore selvaggio dell’Alaska. Uno è credente, l’altro è ateo, e
stanno discutendo l’esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che viene
fuori dopo la quarta birra. L’ateo dice: «Guarda che ho le mie buone ragioni
per non credere in Dio. Ne so qualcosa anch’io di Dio e della preghiera. Appena
un mese fa mi sono lasciato sorprendere da quella spaventosa tormenta di neve
lontano dall’accampamento, non vedevo niente, non sapevo più dov’ero, c’erano
quarantacinque gradi sottozero e così ho fatto un tentativo: mi sono
inginocchiato nella neve e ho urlato: “Dio, sempre ammesso che Tu esista, mi
sono perso nella tormenta e morirò se non mi aiuti!”». A quel punto il credente
guarda l’ateo confuso: «Allora non hai più scuse per non credere – dice -, sei
qui vivo e vegeto». L’ateo sbuffa come se il credente sia uno scemo integrale: «Non
è successo un bel niente, a parte il fatto che due eschimesi di passaggio mi
hanno indicato la strada per l’accampamento».
È facile analizzare questa storiella secondo i criteri classici
delle scienze umanistiche: la stessa identica esperienza può significare due
cose completamente diverse per due persone diverse che abbiano due diverse
impostazioni ideologiche e due diversi modi di attribuire un significato
all’esperienza. Siccome diamo grande valore alla tolleranza e alla diversità
ideologica, la nostra analisi di stampo umanistico non ci consente nel modo più
assoluto di dire che l’interpretazione dell’uno è vera e quella dell’altro è
falsa o disdicevole. Il che va benissimo, solo che così facendo trascuriamo
puntualmente l’origine di tali impostazioni e credenze individuali, la loro
origine, cioè, all’interno di quei due tizi. Quasi che l’orientamento di fondo
di una persona rispetto al mondo e al significato della sua esperienza sia
cablato in automatico, come l’altezza o il numero di scarpa, o assorbito dalla
cultura come la lingua. Quasi che il nostro modo di attribuire un significato
non sia questione di scelta personale e deliberata, di decisione consapevole.
C’è poi la questione dell’arroganza. Il non credente liquida con
estrema petulanza e sicumera l’eventualità che gli eschimesi avessero qualcosa
a che fare con la preghiera di aiuto. D’altro canto i credenti che mostrano
un’arrogante sicurezza nelle loro interpretazioni non si contano nemmeno. E
forse sono anche peggio degli atei, almeno per la maggior parte di noi qui
riuniti, ma il fatto è che il problema dei dogmatici religiosi è identico a
quello dell’ateo della storiella: arroganza, convinzione cieca, una
ristrettezza di idee che si traduce in una prigionia completa al punto che il prigioniero
non sa nemmeno di essere sotto chiave. Il punto, secondo me, è che il mantra
delle scienze umanistiche – «insegnami a pensare» – in parte dovrebbe
significare proprio questo: essere appena un po’meno arrogante, avere un minimo
di «consapevolezza critica» riguardo a me stesso e alle mie certezze… perché
un’enorme percentuale delle cose di cui tendo a essere automaticamente certo
risultano, a ben vedere, del tutto erronee e illusorie. Io l’ho imparato a mie
spese e altrettanto, ho il sospetto, toccherà a voi.
Ecco un esempio dell’erroneità assoluta di una cosa della quale
tendo a essere automaticamente certo. Tutto nella mia esperienza diretta
corrobora la convinzione profonda che io sono il centro esatto dell’universo,
la persona più reale, concreta e importante che esista. Affrontiamo raramente
questa forma di naturale e basilare egocentrismo perché socialmente parlando è
disgustosa anche se, sotto sotto, ci accomuna tutti. È la nostra modalità
predefinita, inserita nei circuiti fin dalla nascita. Pensateci: non avete
vissuto una sola esperienza che non vi vedesse al suo centro esatto. Per voi il
mondo è una cosa che vi sta davanti o dietro, a sinistra o a destra, sullo
schermo del televisore o su quello del computer. I pensieri e i sentimenti degli
altri devono esservi comunque comunicati, i vostri invece sono così vicini,
pressanti, reali. Insomma, ci siamo capiti. Ma state tranquilli, non mi preparo
a tenervi una predica sulla compassione, l’eterodirezione o tutte le altre
cosiddette «virtù». Non è questione di virtù quanto della scelta di impegnarmi
a modificare o a tenere a freno la mia naturale modalità predefinita, che è per
forza di cose profondamente e letteralmente egocentrica, e vede e interpreta
tutto attraverso la lente dell’io. Le persone capaci di adattare a tal punto la
loro modalità predefinita sono spesso considerate l’esatto opposto dei
«disadattati», termine che, vi posso assicurare, non ha niente di casuale.
Dato il contesto accademico è naturale domandarsi fino a che
punto questo adattamento della modalità predefinita coinvolga il sapere o
l’intelletto. La risposta, com’è prevedibile, è che dipende da che cosa
intendiamo sapere. La conseguenza forse più pericolosa di una cultura
accademica, almeno nel mio caso, è che legittima la mia tendenza a essere
cerebrale, a perdermi nelle astrazioni anziché prestare semplicemente
attenzione a quello che mi succede davanti agli occhi. Anziché prestare
attenzione a quello che mi succede dentro. Sono sicuro che ormai sapremo quanto
sia difficile tenere alta la soglia di attenzione e non farsi ipnotizzare
dall’ininterrotto monologo che si svolge dentro la testa. Quello che ancora non
sapete è quanto sia alta la posta in gioco.
Sono passati vent’anni da quando mi sono laureato e nel
frattempo ho capito poco alla volta che il cliché secondo il quale le scienze
umanistiche «insegnano a pensare» in realtà sintetizza una verità molto
profonda e importante. «Imparare a pensare» di fatto significa imparare a
esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel
minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e
di scegliere come attribuire un significato all’esperienza. Perché se non sapete
o non volete esercitare questo tipo di scelta nella vita da adulti, sarete
fregati. Un vecchio cliché vuole che la mente sia un ottimo servo ma un pessimo
padrone. Questo, come molti altri cliché in apparenza fiacchi e banali, in
realtà esprime una grande, terribile verità. Non è certo un caso che gli adulti
che si suicidano con armi da fuoco si sparino quasi sempre… alla testa. E la
verità è che erano quasi tutti già morti da un pezzo quando hanno premuto il
grilletto. E date retta a me, il valore reale e schietto della vostra cultura
umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedire di trascorrere la vostra
comoda vita da adulti da morti, inconsapevoli, schiavi della vostra testa e
della vostra naturale modalità predefinita che vi impone una solitudine unica,
completa e imperiale giorno dopo giorno.
Potrà sembrare un’iperbole, o un’astrazione priva di senso.
Perciò mettiamola sul piano pratico.
Il fatto è che voi laureandi non avete ancora ben chiaro che
cosa significhi realmente “giorno dopo giorno”. Ci sono interi aspetti della
vita americana da adulti che vengono bellamente ignorati da chi tiene discorsi
come questo. I genitori e le persone di una certa età qui presenti sanno
benissimo a cosa mi riferisco. Mettiamo, per dire, che sia una normale giornata
nella vostra vita da adulti: la mattina vi alzate, andate al vostro impegnativo
lavoro impiegatizio da laureati, sgobbate per nove o dieci ore e alla fine
della giornata siete stanchi, siete stressati e volete solo tornare a casa,
fare una bella cenetta, magari rilassarvi un paio d’ore e poi andare a letto
presto perchè il giorno dopo dovete alzarvi e ripartire daccapo. Ma a quel
punto vi ricordate che a casa non c’è niente da mangiare - questa settimana il
vostro lavoro impegnativo vi ha impedito di fare la spesa - e così dopo il
lavoro vi tocca prendere la macchina e andare al supermercato. A quell’ora
escono tutti dal lavoro, c’è un traffico mostruoso e il tragitto richiede molto
più del necessario e, quando finalmente arrivate, scoprite che il supermercato
è strapieno di gente perchè a quell’ora tutti gli altri che come voi lavorano
cercano di ficcarsi nei negozi di alimentari, e il supermercato è orribile,
illuminato al neon e pervaso da quelle musichette e canzoncine capaci solo di
abbruttire e voi dareste qualsiasi cosa per non essere lì, ma non potete
limitarvi a entrare e uscire; vi tocca girare tutti i reparti enormi,
iperilluminati e caotici per trovare quello che vi serve, manovrare il carrello
scassato in mezzo a tutte le altre persone stanche e trafelate col carrello, e
ovviamente ci sono i vecchi di una lentezza glaciale, gli strafatti e i bambini
iperattivi che bloccano la corsia e a voi tocca stringere i denti e sforzarvi
di chiedere permesso in tono gentile ma poi, quando finalmente avete tutto
l’occorrente per la cena, scoprite che non ci sono abbastanza casse aperte
anche se è l’ora di punta, e dovete fare una fila chilometrica, il che è assurdo
e vi manda in bestia, ma non potete prendervela con la cassiera isterica,
oberata com’è quotidianamente da un lavoro così noioso e insensato che tutti
noi qui riuniti in questa prestigiosa università nemmeno ce lo
immaginiamo…fatto sta che finalmente arriva il vostro turno alla cassa, pagate
il vostro cibo, aspettate che una macchinetta autentichi il vostro assegno o la
vostra carta di credito e vi sentite augurare “buona giornata” con una voce che
è esattamente la voce della morte, dopodichè mettete quelle raccapriccianti
buste di plastica sottilissima nell’esasperante carrello dalla ruota impazzita
che tira a sinistra, attraversate tutto il parcheggio intasato, pieno di buche
e di rifiuti, e cercate di caricare la spesa in macchina in modo che non esca
dalle buste rotolando per tutto il bagagliaio lungo il tragitto, in mezzo al
traffico lento, congestionato, strapieno di Suv dell’ora di punta, eccetera,
eccetera. Ci siamo passati tutti, certo: ma non rientra ancora nella routine di
voi laureati, giorno dopo settimana dopo mese dopo anno. Pero’ finirà col
rientrarci, insieme a tante altre squallide, fastidiose routine apparentemente
inutili…
Ma non è questo il punto. Il
punto è che la scelta entra in gioco proprio nelle boiate frustranti e di poco
conto come questa. Perchè il traffico congestionato, i reparti affollati e le
lunghe file alla cassa mi danno il tempo per pensare, e se non decido
consapevolmente come pensare e a cosa prestare attenzione, saro’ incazzato e
giù di corda ogni volta che mi tocca fare la spesa, perchè la mia modalità
predefinita naturale dà per scontato che situazioni come questa contemplino
davvero esclusivamente ME. La mia fame, la mia stanchezza, il mio desiderio di
tornare a casa, e avro’ la netta impressione che tutti gli altri mi intralcino.
E chi sono tutti questi che mi intralciano? Guardali là, fanno quasi tutti
schifo mentre se ne stanno in fila alla cassa come tanti stupidi pecoroni con
l’occhio smorto e niente di umano; e che odiosi poi quei cafoni che parlano al
forte al cellulare in mezzo alla fila. Certo che è proprio un’ingiustizia: ho
sgobbato tutto il santo giorno, muoio di fame, sono stanco e non posso nemmeno
andare a casa a mangiare un boccone e a distendermi un po’ per colpa di tutte
queste stupide, stramaledette persone. Oppure, se gli studi umanistici fanno
propendere la mia modalità predefinita verso una maggiore coscienza sociale,
posso trascorrere il tempo imbottigliato nel traffico di fine giornata a
inorridire per tutti gli enormi, stupidi Suv, Hummer e pickup con motore da 12
valvole che bloccano la corsia bruciando tutti e centottanta i litri di benzina
che hanno in quei loro serbatoi spreconi e egoisti, posso riflettere sul fatto
che gli adesivi patriottici o religiosi sembrano sempre appiccicati sui veicoli
più grossi e schifosamente egoisti, guidati dagli autisti più osceni,
spericolati e aggressivi, che di norma parlando al cellulare mentre ti tagliano
la strada per guadagnare sei stupidi metri nel traffico congestionato, e posso
pensare che i figli dei nostri figli ci disprezzeranno per aver sperperato
tutto il carburante del futuro, mandando in malora il clima, e a quanto siamo
viziati, stupidi, egoisti e ripugnanti, e a come fa tutto veramente schifo e
chi più ne ha più ne metta…
Guardate
che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti,
solo che pensarla così diventa talmente facile e automatico che non richiede
una scelta. Pensarla così è la mia modalità predefinita naturale. E’ il mio
modo automatico e inconsapevole di affrontare le parti noiose, frustranti e
caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione
automatica e inconsapevole che sono io il centro del mondo, e che sono le mie
sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire l’ordine di importanza delle
cose. Il fatto è che in frangenti come questo si puo’ pensare in tanti modi
diversi. Nel traffico, con tutti i veicoli che mi si piazzano davanti e mi
intralciano, non è da escludere che a bordo dei Suv ci sia qualcuno che in
passato ha avuto uno spaventoso incidente e ora ha un tale terrore di guidare
che il suo analista gli ha ordinato di farsi un Suv mastodontico per sentirsi
più sicuro alla guida; o che al volante dell’Hummer che mi ha appena tagliato
la strada ci sia un padre che cerca di portare di corsa in ospedale il
figlioletto ferito o malato che gli siede accanto, e la sua fretta è maggiore e
più legittima della mia: anzi, sono io a intralciarlo. Oppure posso scegliere
di prendere mio malgrado in considerazione l’eventualità che tutti gli altri in
fila alla cassa del supermercato siano annoiati e frustrati almeno quanto me, e
che qualcuno magari abbia una vita nel complesso più difficile, tediosa e
sofferta della mia. Vi prego ancora una volta di non pensare che voglia darvi
dei consigli morali, o che vi stia dicendo che “dovreste” pensarla così, o che
qualcuno si aspetta che lo facciate automaticamente, perchè è difficile,
richiede forza di volontà e impegno mentale e, se siete come me, certi giorni
non ci riuscirete proprio, o semplicemente non ne avrete nessuna voglia. Ma
quasi tutti gli altri giorni, se siete abbastanza consapevoli da offrirvi una
scelta, potrete scegliere di guardare in modo diverso quella signora grassa con
l’occhio smorto e il trucco pesante in fila in cassa che ha appena sgridato il
figlio: forse non è sempre così; forse è stata sveglia tre notti di seguito a
stringere la mano al marito che sta morendo di cancro alle ossa. O forse è
quella stessa impiegata assunta alla Motorizzazione col minimo salariale che soltanto
ieri ha aiutato vostra moglie a risolvere un problema burocratico da incubo
facendole una piccola gentilezza di ordine amministrativo. Non è molto
verosimile, d’accordo, ma non è nemmeno da escludere: dipende solo da cosa
volete prendere in considerazione.
Se siete automaticamente certi di sapere cosa sia la realtà e
chi e che cosa siano davvero importanti - se volete operare in modalità
predefinita - allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le
eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a
prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete
davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta,
iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla
stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a
tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V
maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla. Questa, a mio
avviso, è la libertà che viene dalla vera cultura, dall’aver imparato a non
essere disadattati; riuscire a decidere consapevolmente che cosa importa e che
cosa no. Riuscire a decidere che cosa venerare…
Ecco un’altra cosa vera. Nelle trincee quotidiane della vita da
adulti l’ateismo non esiste. Non venerare è impossibile. Tutti venerano
qualcosa. L’unica scelta che abbiamo è che cosa venerare. E un motivo
importantissimo per scegliere di venerare un certo dio o una cosa di tipo
spirituale - che sia Gesù Cristo o Allah, che sia YHWH o la dea madre della
religione Wicca, le Quattro Nobili Verità o una serie di principi etici
inviolabili - è che qualunque altra cosa veneriate vi mangerà vivi. Se venerate
il denaro e le cose, se è a loro che attribuite il vero significato della vita,
non vi basteranno mai. Non avrete mai la sensazione che vi bastino. E’ questa
la verità. Venerate il vostro corpo, la vostra bellezza e la vostra carica
erotica e vi sentirete sempre brutti, e quando compariranno i primi segni del
tempo e dell’età, morirete un milione di volte prima che vi sotterrino in via
definitiva. Sotto un certo aspetto lo sappiamo già tutti benissimo: è
codificato nei miti, nei proverbi, nei cliché, nei luoghi comuni, negli
epigrammi, nelle parabole; è la struttura portante di tutte le grandi storie.
Il segreto consiste nel dare un ruolo di primo piano alla verità nella
consapevolezza quotidiana. Venerate il potere e finirete col sentirvi deboli e
spaventati, e vi servirà sempre più potere sugli altri per tenere a bada la
paura. Venerate l’intelletto, spacciatevi per persone in gamba, e finirete col
sentirvi stupidi, impostori, sempre sul punto di essere smascherati. E così
via.
Guardate che l’aspetto
insidioso di queste forme di venerazione non è che sono malvagie o peccaminose,
è che sono inconsapevoli. Sono modalità predefinite. Sono il genere di
venerazione in cui scivolate per gradi, giorno dopo giorno, diventando sempre
più selettivi su quello che vedete e sul metro che usate per giudicare senza
rendervi nemmeno ben conto di farlo. E il cosiddetto “mondo reale” non vi
dissuaderà dall’operare in modalità predefinita, perchè il cosiddetto “mondo
reale” degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo
piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione,
dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato
queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità, libertà personale
a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio,
soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi.
Cio’ non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere più
prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, conquiste
e ostentazione. Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione,
consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri
e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che
non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera
libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la
modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente
divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito.
So che questa roba forse non
vi sembrerà divertente, leggera o altamente ispirata come invece dovrebbe
essere nella sostanza un discorso per il conferimento delle lauree. Per come la
vedo io è la verità sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche. Ovvio che
potete prenderla come vi pare. Ma vi pregherei di non liquidarlo come uno di
quei sermoni che la dottoressa Laura impartisce agitando il dito. Qui la
morale, la religione, il dogma o le grandi domande stravaganti sulla vita dopo
la morte non c’entrano. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima
della morte. Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza
il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vera
cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la
consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di cio’ che è così reale e
essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da
costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: “Questa è l’acqua, questa è
l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto più di quello che sembra”. Farlo,
vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà
inimmaginabile. E questo dimostra la verità di un altro cliché: la vostra
cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia…adesso. Augurarvi buona
fortuna sarebbe troppo poco.
Wallace D. F. (2010),"Questa è l'acqua". Einaudi
Editore.
Grande testo! ! ! Grazie don......e confidiamo d'imparare a variare le modalità predefinite in tempo utile per apprezzarne i benefici....
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