domenica 5 giugno 2016

L'aggettivo "popolare"

Nelle gambe ho tanto latte da poterci fare un buon bitto. Sulla fronte una vena ingrossata che mia mamma non ha mancato di rimarcare. Nella mente una gioia lenta e profonda. Il cuore riprende a battere e farà del bene a tutto il corpo! Le sfide sono sfide, chi vince vince, chi perde perde. Questa volta abbiamo vinto, e come sono lieto di usare il plurale.

Terra, salamella, magliette rosse e strisce bianche, Messa, balli, amici, birra e brasato, lotteria e tanto tanto servizio. 
Che cos'è un popolo? 
Ogni collettività umana avente un riferimento comune ad una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppate su un territorio geograficamente determinato (...) costituisce un popolo. Ogni popolo ha il diritto di identificarsi in quanto tale 
Mi spiace per i sostenitori delle élites ma noi saremo sempre per un popolo. La parola ha attraversato diverse stagioni. Dalla esaltazione patriottica alla svalutazione gnostica, dalla stagione sturziana a quella deuterovaticana. Ci ho messo un po' a riconciliarmi con questa parola. Il mio primo parroco (speriamo che non legga questo post) fece la guerra contro il popolare, io ero d'accordo con lui ma all'epoca lui aveva intenzioni diverse da quelle che ho io oggi.
Nel 2005 morì Giovanni Paolo II e i ragazzi dell'Oratorio mi presero per la gola perché li accompagnassi a Roma per omaggiarne la salma. Dopo 12 ore di pullman arrivammo nella città capitale del mondo (altro che Parigi Londra e New York, pfui). Una fiumana di gente di ogni razza, nazione e colore ingombrava le vie come non mi è più capitato di vedere. Facemmo 10 ore di coda e non arrivammo nemmeno a via della Conciliazione. Tornammo con le pive nel sacco ma certi della validità del nostro pellegrinare. In mano tenevamo un giornale (forse il Tempo) che riportava una foto ed un titolo molto stringato: UN POPOLO.
C'è una differenza abissale tra un gruppo, una massa e un popolo. Noi non siamo nameless, non siamo senza nome, abbiamo tutti dei nomi e delle storie che portiamo con noi. Ci sono belli e brutti, nobili e borghesi, colti e incolti, giovani e vecchi, bambini, semplici e e e ...
La versione british dice "pop" ma non è proprio la stessa cosa. Certo il pop non conosce le asprezze del rock o l'urbanesimo postmoderno del rap (in Italia grazie a Dio saremo sempre un po' più melodici).
Poi è venuto papa Francesco e la sua Teologia del popolo con quella sintesi mirabile (forse non del tutto conclusa) tra cattolicesimo e povertà; con l'invito costante ad uscire o quantomeno a non ostruire l'entrata. La Chiesa è e deve essere popolo di Dio, vicina a tutti in qualunque condizione siano. Una sintesi di tutte le tensioni, quelle economiche, quelle sociali, quelle culturali, quelle sessuali. Sintesi che si fa liturgia, danza e gioco. Unità che si fa solidarietà, simpatia e inclusione. 
Non vogliamo dimenticare le regole ma farle emergere laddove sono necessarie, non vogliamo perdere nulla di tutta la tradizione ma solo riprenderla perché sia viva e reale. La sfida piuttosto è trovare donne e uomini che amino intensamente Dio ed il suo popolo (che poi si tratta di un atto unico) che siano appassionati di questa prospettiva faticosa, lenta, rumorosa e un po' casinara ma profondamente lieta  e costruttiva. Oggi non ho predicato ma prima che finisse la domenica non potevo non farlo. Sono sempre un prete, no? Grazie e laus Deo.

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