domenica 19 luglio 2015

E. Ghini: In memoria di Giacomo Biffi apostolo di Cristo. Elogio della parresia

Emanuela Ghini - Giacomo Biffi è stato un pastore di grandissima intelligenza spirituale, profondamente innamorato di Dio e dell’uomo, a volte quasi intemperante per questo duplice unico amore. Il suo patrimonio di pubblicazioni teologiche e pastorali arricchisce la Chiesa ed educa tutti a una visione del cristianesimo profondamente realistica, umano-divina, dove il rigore della ragione si sposa a una profonda sensibilità e la fermezza delle convinzioni è mitigata da una grande umiltà. Con un senso indomito dell’assoluto, fonte di intraprendenza e insieme di distacco e profonda serenità. E un umorismo dalle mille sfumature, garbato e caustico.
La fede vissuta senza flessioni, con una ricerca mai sazia ma felice, si è espressa in modo commovente in Biffi anche nei suoi ultimi tempi, nell’accettazione paziente e arresa della lenta progressiva decadenza. L’acuta e consapevole percezione del volgersi del suo cammino terreno verso il compimento ha dato al suo animo appassionato atteggiamenti toccanti di abbandono e mitezza.
Incontrai Giacomo Biffi quando insegnava l’ultimo anno al seminario di Venegono. Io terminavo l’università. Negli anni Sessanta entrai al Carmelo e per sei anni, fino alla professione solenne, tacqui con tutti, come richiedeva il noviziato di quegli anni. Dagli anni Settanta il nostro dialogo, sia pure in tempi lunghi, i tempi monastici, riprese e non finì. Spiritosa, provocatoria, sempre imprevedibile, la sua conversazione, per quanto mai assolutizzata, ha accompagnato, fatto crescere, irritato, illuminato la mia vita carmelitana. Devo il Vangelo ai miei genitori e alla straordinaria fedeltà fraterna e incomparabile di Luigi Bettazzi; devo l’accoglienza degli aspetti per me meno accettabili della vita carmelitana, la perseveranza “nel paese della dissimilitudine”, al magistero fermo e forte ma brioso, divertente e divertito di Biffi.
Il 7 dicembre 1975 è eletto da Paolo VI vescovo titolare di Fidene e deputato ausiliare del cardinale Giovanni Colombo, arcivescovo di Milano, che lo consacra vescovo l’11 gennaio 1976. Alla vigilia, il 9 gennaio da Rho, Biffi scrive: «Sono a godermi qualche giorno di solitudine e mancano poche ore alla mia ordinazione (…) più ci penso e meno mi affascina l’idea di questo “matrimonio”: ho una gran paura che il Signore — che mi ha dato finora un’esistenza spudoratamente felice e interiormente libera — voglia adesso cambiare la natura dei suoi doni. Ho l’impressione fisica di entrare in una gabbia. Mi rendo conto che non sono sentimenti molto soprannaturali, ma non posso farci niente».
Andato a Roma per la professione di fede, fa dell’ambiente del Vaticano una descrizione che supera ogni commento, dove all’implacabile ironia si unisce la consapevolezza della gravità del compito di vescovo, l’umana trepidazione per la missione del pastore, il realismo impietoso che non si nasconde nulla: «Sarebbe troppo lungo raccontarti per iscritto quanto mi sia divertito a Roma in due giorni; ne parleremo a voce, se ci sarà dato. Provavo tra l’altro un grande piacere a mettermi lo zucchetto rosso quando passavo davanti alle guardie svizzere, per sentir battere i tacchi e farmi presentare le armi. Il nunzio apostolico poi mi ha confidato, nel lussuoso riserbo che di solito circonda le sedi dei diplomatici, che l’Australia è un continente e che davanti al Santissimo Sacramento bisogna fare la genuflessione; ti raccomando di non dirlo in giro. Che peccato che i vescovi non usino più scegliersi uno stemma! Questa serissima cristianità postconciliare si sta privando di tutte le più innocenti occasioni di divertimento. Io però almeno il motto me lo sono scelto. Quello segreto, da rivelare solo agli amici, è:Recuso laborem. Quello compassato e ufficiale è: In sollecitudine et hilaritate. Non ho voglia di diventare vescovo. Non sono forte, anche se tu lo pensi. Tutta la mia forza credo stia nel dono di percepire immediatamente la stupidità, anche quando è ben nascosta dall’erudizione e dal fascino della novità e del sentimento, anche sincero, della drammaticità e della problematicità dell’esistenza. Ma i vescovi devono prendere tutti sul serio e ascoltare tutto con sofferta partecipazione. Tempi duri mi aspettano».
Questi richiami ad alcuni passi delle lettere di Biffi a una carmelitana, certo indicativi di tanti suoi rapporti con i giovani, mettono in luce, con il suo straordinario e noto senso dell’umorismo e l’arguzia di uno spirito acuto e finissimo, la sua abilità pedagogica, la dimensione evangelizzatrice di un pastore che usa ogni mezzo per portare la parola di salvezza. L’umorismo è in lui originale e persuasivo metodo di catechesi.
All’indocilità e alla ribellione di una giovane monaca di fronte ad aspetti della vita monastica in verità obsoleti nel clima postconciliare, risponde con poche chiare linee guida, magistrali per sintesi e incisività. Capaci di placare e convincere ogni spirito critico. Il distacco che è partecipazione, l’ascesi che invera la persona, il valore dell’hic et nunc che fa aderire alla realtà sono principi validi per ogni vita non solo cristiana, tanto più per una vita che vuol vivere con coerenza il battesimo.
Il dialogo tra un sacerdote dalla fede granitica e luminosa che rivolgendosi a una monaca «effervescente e scalpitante», si definisce «questo tuo amico reazionario» deve aver avuto tra i due incongrui interlocutori una dissonanza che solo la pazienza e l’intelligenza di un pastore come Giacomo Biffi poteva reggere. Rileggendole dopo decenni, la scrivente non tollererebbe certamente le lettere che può avere scritto. Forse vi riconoscerebbe la volontà di “parresia” che ha sempre cercato di vivere, ma conoscendo ora i rischi di quella che Giuseppe Dossetti chiama «infelice parresia, falsa sicurezza», comprenderebbe maggiormente la sapienza e la magnanimità di “padre Giacomo”. Accogliendo ogni critica e leggendo oltre ogni rifiuto, persuadeva pian piano con arguzia e umorismo uno spirito irrequieto, in ricerca, all’incontro vivo ma pacificante con Gesù Cristo. In un rapporto certo emblematico di quello che ha vissuto con i giovani che il suo ministero gli ha dato di incontrare.
Solo un pastore autentico può scrivere nel 1971 a una contestatrice a volte intemperante «l’importante è che continuiamo a volerci bene e a dialogare con franchezza, senza plagiarci vicendevolmente e senza prepotenze». Volersi bene non significa non dissentire. Il cardinale Biffi mi ha visto su sponde diverse alcune volte, soprattutto nella valutazione della personalità di Giuseppe Dossetti. Con molta sofferenza ma altrettanta chiarezza gli ho sempre detto non solo quanto non condividevo, ma anche quanto nel mio piccolo mi pareva non corretto e lontano dalla realtà. Sapevo che l’amore che ci contiene è più forte e che ogni disparità di valutazione non l’avrebbe leso. Mi disse che davanti a tante critiche operate nei modi più diversi avevo il coraggio della “parresia”. Non mutò ovviamente le sue convinzioni, ma percepì il dolore di tanti per le sue parole, a volte davvero amare e ferenti.
Biffi invita a un cristianesimo pieno, attinto alla tradizione della Chiesa, in un legame con il passato da riattualizzare, rendere presenza colma di futuro. Da qui l’interesse per parole a volte dure, anche indisponenti, ma spesso effettivamente profetiche. Esse richiedono una vera libertà, cioè il dono dello Spirito, che libera dalla schiavitù dei miti. Biffi è impietosamente abile nell’evidenziarli, nello smascherare gli idoli d’ogni genere, fatti oggetto di cieca venerazione: «uomini, sistemi, ideologie, avvenimenti “decisivi”, libri “sacri”, partiti “unici”, bandiere “gloriose”. Soltanto nell’ortodossia — afferma in Contro mastro Ciliegia, sfidando il rischio del recupero di un termine ormai obsoleto — ci si salva dai fanatismi e dalle esaltazioni bigotte, senza cadere nello scetticismo».
L’ortodossia, per Chesterton e per Biffi, che lo richiama, non è somma di convenzioni ma realtà profonda del cristianesimo, dono dello Spirito, che coinvolge nella sua sobria ebbrezza. A Chesterton che scrive: «Non c’è mai stato nulla di così pericoloso e così emozionante come l’ortodossia (…), la sola, logica custode della libertà, dell’innovazione e del progresso», Biffi fa eco in assoluta consonanza: «Niente è così forte e saziante come la verità che si offra senza clamori, in abiti dimessi, e proprio col senso insieme della totalità e della misura apre veramente all’infinito».
Ortodossia, cuore vivente della tradizione. María Zambrano — non a caso una donna — ha messo in risalto il carattere unitivo della tradizione, che ha definito “rete”: una struttura che mediante fili trasmette partecipazione, sentimenti, suscita ispirazioni, comunica vita.
Alcune parole pronunciate da Giacomo Biffi nell’eucaristia del suo ottantesimo compleanno (13 giugno 2008) possono costituire la sintesi della sua vita: «Tutto ciò che sulle prime mi era sembrato contingente e fortuito mi si manifesta come frutto di un progetto mirato: un progetto eccedente ogni mia immaginazione e del tutto gratuito, liberamente formulato da colui che è l’Eterno. La casualità è soltanto il travestimento assunto da un Dio che vuol passeggiare in incognito per le strade del mondo; un Dio che si studia di non abbagliarci con la sua onnipotenza e col suo splendore».
È bello congedarsi da Biffi accogliendo il sentimento che ha accompagnato tutta la sua vita ed è stato confermato nella mite arrendevolezza alla fatica dell’anzianità e poi delle gravi malattie accolte con una accettazione che il cardinale Caffarra ha definito «sconvolgente». Giacomo Biffi ha vissuto e ha insegnato a vivere la meraviglia stupita dell’incredibile e arcana benevolenza del «Padre della luce», dal quale «discende ogni buon regalo e ogni dono perfetto» (cfr. Giacomo, 1, 17). I suoi ultimi giorni sono stati illuminati non solo dalla serena accettazione della grave malattia, ma dalla gioia irradiante dalla percezione della «cosa grande», la realtà immensa che ci attende. Diceva ai visitatori: «Sto aspettando una visita bellissima». Una contagiosa letizia si sprigionava dalla sua persona, dallo sguardo pieno di luce e dal sorriso che colpiva tutti. Anticipazione della gioia definitiva, di cui Giacomo Biffi è stato testimone felice lungo tutta la sua vita di apostolo di Cristo.
L'Osservatore Romano, 19 luglio 2015

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