giovedì 4 giugno 2015

In famiglia non si getta mai la spugna

Andrea Mantegna, «Incontro» (1465-1474, Camera degli Sposi, Mantova, particolare)È notte e allora scrivo: i nostri quattro bambini si sono appena addormentati nei loro letti; le magliette con le macchie di sugo, cioccolato e fango riposano invece in candeggina. Mio marito, dopo averli fatti capitolare con minacce, promesse e l’ennesima lettura dell’Isola del Tesoro, corregge i compiti dei suoi studenti, su una sedia che scricchiola ogni volta che cerca una posizione più comoda. Ma non c’è niente di comodo in famiglia: né sedie, né letti, né relazioni. 

La famiglia piacevole, pacifica e armoniosa è una trovata pubblicitaria, un’etichetta devota o una sovrastruttura ideologica, cavalcata da quei suoi detrattori, che la dipingono come un rifugio meschino e claustrofobico. Eppure, la famiglia è un ambiente ampio e convulso, che richiede risorse ed energia, che abbisogna di passione e pazienza: che richiama una vita a dispiegarsi con pienezza. In famiglia, la parola “distacco” è bandita, i legami sono ravvicinati: si è tutti coinvolti in un groviglio di relazioni, a cui è impossibile sottrarsi e che bisogna, volenti o nolenti, affrontare. Se gli amici li scegliamo, se i nemici ce li facciamo, i cosiddetti parenti li troviamo già fatti: se tra conoscenti esiste un limite, definibile come “rispetto” o forse “sana ipocrisia”, in casa le distanze si accorciano e gli spazi si sovrappongono. La famiglia diviene il ring dove le libertà dei suoi membri si incontrano e si scontrano, più o meno sportivamente. Il match è infinito e il kappaò è un lusso che nessuno può concedersi: in famiglia le si prende e le si dà, ma non si getta mai la spugna. Eppure, proprio questo pomeriggio, mentre aspettavo nel corridoio della Asl mio figlio Thomas che faceva logopedia, ho sentito una madre convenire con un’altra su come la vita familiare fosse noiosa, ripetitiva, limitata e frustrante. Ecco, io allora mi sono guardata e mi sono vergognata della macchia di crema di riso in evidenza sulla manica della mia maglietta, dei gioielli che non ho più tempo (e forse neanche più voglia) di mettere, delle scarpe da ginnastica dalla tela ormai logora, del cellulare con il display appannato dalle ditate dei miei figli. Ma dopo quell’iniziale stordimento, un rombo sordo, procedendo dalle viscere, ha iniziato a suonare le trombe della controffensiva. E allora avrei voluto chiedere a quelle madri annoiate e disincantate, che cosa hanno provato, ad esempio, quando hanno sentito per la prima volta nel ventre un battito d’ali di farfalla, a chi hanno tenuto stretta la mano mentre i loro figli nascevano, a quale santo si sono raccomandate quando, giovani e inesperte, sono arrivate a casa dall’ospedale con la carrozzina ultimo modello e un bebè urlante che da lì in poi avrebbe preteso molto, se non tutto. Vorrei sapere poi della loro preoccupazione per il primo vaccino, della trepidazione per la recita di Natale a scuola, della loro rabbia per l’imperitura serie di liti sul come vestirsi, cosa mangiare e quando spegnere, a sera, la televisione o il computer. E poi ho alzato, o dovuto alzare, gli occhi su Miriam, che mi balbettava la lezione di storia sugli Achei, mentre Angelica non mollava la presa del mio collo, cercando di ottenere almeno un giro di «sedia sediola» sulle ginocchia. Il tutto nel corridoio grigio e sporco di una Asl, dove un’ora di attesa in quelle condizioni corrisponde alla tredicesima fatica di Ercole, tanto per rimanere in ambito greco. Ma le fatiche di Ercole sono tutto fuorché noia: sono avventure. Sono limitazioni e prove che l’eroe della storia deve superare e vincere, con il corpo e con la mente, e il vero eroe, anche se a volte essere semidio non guasterebbe, non è onnipotente, altrimenti la storia si concluderebbe sul nascere. L’eroe autentico è umile: è un comune mortale, che accetta di immergersi completamente nella verità dell’esperienza, mettendosene al servizio. La vita familiare è proprio ciò che ci inserisce quotidianamente in situazioni inaspettate, imprevedibili: come per i protagonisti di un romanzo, il non averne il controllo è il prerequisito fondamentale del potervi prendere parte. E così, nonostante il mio smartphone mi tentasse all’oblio dell’isolamento, non gli ho ceduto, e la partenza degli Achei per Troia è diventata l’occasione per discutere di un padre che sacrifica la figlia per propiziare i venti, di una donna che scappa per amore, del valore della bellezza interiore ed esteriore. Miriam, che ha nove anni, ha mostrato idee molto chiare sull’importanza che il cuore, più che la chioma bionda, debba essere «al posto giusto», mentre Angelica, pur capendo i termini della tenzone, non ha mollato la posizione di predominio in braccio a me e ha rincarato la dose, iniziando a recitare una poesia imparata la mattina stessa all’asilo. Miriam, infine, ha stabilito che quest’estate saremmo andati in Grecia, a vedere la porta dei leoni di Micene e io, nonostante il pensiero di quattro bambini sotto il sole a picco d’agosto, ho detto «perché no?». Eppure, il pensiero dominante imporrebbe, per un’estate che si rispetti, spiaggia e ombrellone con contorno di madri snelle, padri possibilmente tatuati, figlie ballerine di baby-dance e figli campioncini di calcetto. Ma al “godimento convenzionale”, la famiglia è in grado di opporre un “godimento libero”, dando prova, in un inaspettato ribaltamento di prospettiva, della sua intrinseca natura anarchica, irriducibile a ogni irreggimentazione sociale. È solo nell’ambito di quell’ambiente domestico, foriero di comprensione e umorismo, infatti, che Thomas, vestito da Zorro, mangia i calamari, con i guanti di raso nero o che Miriam interpreta appassionatamente in salotto Lucy In The Sky With Diamonds, incurante dell’ennesima boy-band alla moda, di cui parlano le sue amiche a ricreazione. Nel mondo esterno si va in divisa, anche se fatta di giacca e cravatta, si intona tutti la stessa canzone, perché è lì, più che in famiglia, che vige una rigida disciplina e un’altrettanto rigida routine, imparagonabili con l’indipendenza vissuta in casa. La famiglia è l’alveo che protegge la libertà personale dall’aggressiva standardizzazione (scambiata per stimolante dinamismo) che ringhia nel mondo esterno. Le pareti domestiche, inoltre, racchiudono una quotidianità ricca di affettività e rimandi spirituali, dove, nonostante la fatica e la ripetitività, l’opacità dei giorni si apre a una bellezza inspiegabile e improvvisa, a una dimensione vitale e sorgiva dell’esistenza. Per quel che mi riguarda, ho iniziato a scrivere poesie perché spinta da questa eccedenza di vita, da una meraviglia inaspettata e radiante che non poteva essere penetrata dal pensiero logico, ma solamente balbettata, rappresentata e contemplata dal verso lirico. La vita familiare, sommersa nella nostra società da una retorica sentimentale e da stereotipi commerciali, si è rivelata essere una palestra dello spirito, un modo per intuire la trascendenza che irrompe nella realtà di tutti i giorni. La morte di un pesce rosso, poiché seguita dallo sgomento dei bambini, richiede risorse per rispondere a domande fondamentali di senso; le vasche, in una piscina di periferia, si attraversano solo con l’incoraggiamento dello sguardo della propria madre, in trepidazione dietro al vetro; la lotta quotidiana non concede tregua alla stanchezza dei genitori, che combattono come leoni per ciò che di più caro hanno al mondo. E di queste cose ho scritto. Le prove concrete, che l’esperienza della famiglia comporta, stimolano la creatività e affinano una vita dello spirito che intraprende con Dio un dialogo personale, dalle modalità non convenzionali. Si tratta per lo più di una conversazione costante, non codificata, che avviene in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento: che nasce dall’urgenza di chiedere aiuto e dall’impellenza di rendere grazie. Là dove c’è tanto amore, complesso, aggrovigliato, straripante, si invoca la protezione di Dio, a lui si chiede consiglio; come pure a lui si rende grazie quando si è “ordinariamente” inondati da una bellezza per cui un cuore solo non sembra bastare. Così, quando siamo tutti a tavola e penso che, per l’incidente che mio marito ha avuto mesi fa, avremmo potuto non essere mai più seduti insieme, ringrazio Dio, come pure quando, esausta, vedo Emily spalancarsi in un sorriso furbetto appena la sollevo dalla carrozzina dove si disperava. Insomma, la famiglia è un’esperienza che va vissuta fino in fondo e senza compromessi perché diventi una reale opportunità di crescita e maturazione e perché il nostro amore imperfetto, recalcitrante, contraddittorio si corrobori, si fortifichi e infine si dispieghi nell’imprevedibile e sorprendente avventura della vita.
di Elena Buia Rutt

                L’autrice


Elena Buia Rutt, classe 1971, vive a Roma. Collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste. 
Ha scritto saggi su Pier Vittorio Tondelli e Flannery O’Connor e tradotto opere inedite di Mary Oliver, Flannery O’Connor e Rowan Williams. La sua prima raccolta di poesie Ti stringo la mano mentre dormi (Fuorilinea 2012) è entrata nella terzina finale del premio Fogazzaro. È in uscita a giugno Il mio cuore è un asino, secondo volume di poesie, per la casa editrice Nottetempo.

Tratto da:
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